
Spesso si ha bisogno del pensiero laterale per affrontare e risolvere problemi che sembrerebbero senza soluzione.
I temi della sicurezza e della ciclabilità vengono affrontati un po’ da tutti, governo, parlamento, enti locali, comprese le organizzazioni che rappresentano i ciclisti, con la logica delle infrastrutture che ha caratterizzato il XX secolo.
Se le strade a traffico promiscuo sono insicure per i ciclisti, la soluzione apparentemente ovvia è quella di costruire le piste ciclabili (leggi anche “Le ciclabili sono la soluzione per gli automobilisti”), nuove infrastrutture destinate esclusivamente a loro (ma spesso anche ai pedoni) così da confinarli entro binari “sicuri”, togliendoli dalle strade, ed evitando così che siano di intralcio per gli altri veicoli a motore.
Se questa può essere una soluzione in ambito urbano (ma poi vedremo perché non lo è in assoluto), in ambito extraurbano è puramente teorica e difficilmente praticabile, oltre che penalizzante per i ciclisti.

Realizzare una pista ciclabile è come realizzare una nuova strada. Ha dei costi di costruzione rilevanti e necessita di procedure burocratiche (espropri e autorizzazioni) dagli esiti incerti, oltre a tempi lunghi di realizzazione.
Questo vale sia in ambito urbano che extraurbano.
L’esperienza sul campo dimostra che le ciclabili urbane, quelle ben progettate, che seguono criteri logici, non episodiche, che formano una rete percorribile in continuità, sono molto utili e frequentatissime. Ma poche città in Italia posso vantare la presenza di una rete ciclabile con queste caratteristiche. Quasi sempre troviamo solo alcuni tratti di ciclabili ben realizzate che collegano il nulla con il nulla e, chiaramente, non vengono utilizzate dai ciclisti
Quelle extraurbane, quando ben realizzate e interconnesse con punti di scambio intermodale, che attraversano i borghi e i piccoli centri urbani, immerse nella natura e provviste di servizi, sono anch’esse frequentate da numerosi ciclisti. Ma queste ciclabili si contano sulla punta delle dita perché non sono contemplate nell’immaginario dei progettisti e degli amministratori.
Così, quelle realizzate con lo stesso criterio delle autostrade, con un unico punto di accesso e di uscita, separate dal contesto, sono meno frequentate dai ciclisti e, dopo pochi anni dalla loro realizzazione, diventano impraticabili per assenza di manutenzione. Solo i tratti prossimi ai centri abitati vengono frequentati, ma non dai ciclisti. Prevalentemente runner e pedoni con cane al guinzaglio.
Nonostante le poche esperienze realizzate ci insegnino molto sull’utilità e inutilità delle piste ciclabili e ci forniscano utili indicazioni su come progettarle, il pensiero dominate si rifà a questo modello astratto basato sulla separazione virtuale dei flussi di traffico per categorie.
Lo stesso progetto delle ciclovie turistiche nazionali (leggi anche “Che fine hanno fatto i progetti delle Ciclovie…”) risente di questo approccio, nonostante sia evidente la sua impraticabilità nel contesto italiano dove, tranne in pochi tratti pianeggianti, predomina il paesaggio collinare e montuoso che rende impossibile il rispetto degli standard teorici di percorribilità e sicurezza.

La soluzione viene subordinata all’approccio ingegneristico che domina nei ministeri e negli enti locali e il risultato è che i progetti sono particolarmente complessi, le risorse economiche non sono sufficienti, i tempi di realizzazione si allungano a dismisura.
Invece di cambiare rotta, si continua ad affrontare la cosa sempre allo stesso modo con risultati deludenti e scoraggianti.
Qui entra in ballo il pensiero laterale.
Ma perché non pensiamo di utilizzare ciò che già esiste ?
Perché non pensiamo di rendere ciclabili le strade minori esistenti che costituiscono una fitta rete di collegamento tra i numerosissimi borghi e frazioni disseminati nel nostro territorio ?
Si tratta di un patrimonio enorme, di rilevante valore economico, culturale, sociale e turistico, oggi difficilmente valorizzabile perché difficilmente raggiungibile.
Le stesse strade minori sono un patrimonio di grande valore (leggi anche “Strade da Vivere”). Non sono state progettate in base ai criteri della velocità, raramente attraversano montagne con lunghe gallerie, sono integrate nel paesaggio di cui fanno parte, sono utilizzate per le produzioni agricole, servono a collegare e rendere vivibili anche le frazioni più remote.
Queste strade che accarezzano il territorio sono l’eredità plurimillenaria che ci hanno lasciato i nostri antenati.
Perché non utilizzarle ? Perché non costruire, attraverso la loro valorizzazione, un modello alternativo di sviluppo economico, sociale, culturale, basato sulla conoscenza del territorio e sulle comunità e culture che lo abitano ?
E’ più facile di quanto sembri. Si tratta di adottare dei criteri semplici di riclassificazione di questo enorme e complesso patrimonio di strade utilizzando una metodologia di analisi condivisa e praticabile.
Un esempio virtuoso: il Masterplan per la Mobilità Dolce della Provincia di Siena
La Provincia di Siena è la prima provincia italiana che si è dotata recentemente di un Masterplan per la Mobilità Dolce (Leggi l’articolo) basato su una metodologia di indagine che consente la riclassificazione delle strade esistenti secondo parametri ben definiti che, oltre a fotografare l’esistente, suggerisce quali interventi manutentivi e di qualificazione debbano essere realizzati per guadagnare nel tempo un rating che le renda più appetibili, dal punto di vista della percorribilità, fruibilità e sicurezza, ai flussi cicloturistici che si intendono attrarre nei vari territori.

Questa metodologia, validata sul campo, ha richiesto alcuni anni per essere messa a punto ma ora è disponibile per essere applicata su tutto il territorio nazionale grazie al fatto di essere stata adottata dalla Provincia di Siena e da alcuni Comuni del senese che, a livello prototipale, la stanno sperimentando per attrezzare il proprio territorio con una visione unitaria e una logica condivise.
La cosa veramente interessante e innovativa di questo approccio sta nel fatto che questa rete di percorsi cicloturistici non è vista come un organismo statico, e la classificazione dei singoli segmenti che la compongono può essere aggiornata nel tempo a seguito di interventi strutturali migliorativi o condizioni degenerative (per incuria o calamità).
La tecnologia utilizzata (una App che trasferisce i dati rilevati in tempo reale) rende più facile il compito ai gestori delle strade, agli Enti Locali che promuovono i percorsi cicloturistici e ai certificatori che stabiliscono il rating delle singole tratte in base a specifici indicatori.
Sicuramente si tratta di un primo passo utile non solo alla valorizzazione di un territorio particolarmente vocato al cicloturismo, ma di un approccio metodologico innovativo per avviare una nuova fase di valorizzazione delle risorse territoriali.
Per completare l’opera, sarà comunque necessario riuscire ad ottenere anche una riforma del Codice della Strada (Leggi anche “e se il Codice della Strada…”) in grado di recepire le esigenze del cicloturismo e della mobilità slow, introducendo delle semplici norme a tutela della fruizione condivisa delle strade da parte di tutti gli utenti (Leggi anche “Siamo uomini o caporali, ciclisti/automobilisti”).